Negli ultimi tempi mi interrogo spesso sul senso della fotografia o, più precisamente, sul senso che per me ha oggi la fotografia nell’epoca della sua condivisione immediata sui social media.
Perché fotografo? Cosa mi propongo di cogliere quando scatto? Cosa cerco di comunicare? E soprattutto: cosa cerco?
Me lo chiedevo anche la scorsa domenica di Pasqua, una domenica di fine aprile piovigginosa e fredda, a tratti squarciata da un sole incerto che faceva capolino fra le nuvole, e che ho deciso di trascorrere a Pavia, città che pur essendo distante meno di settanta chilometri da dove vivo, non avevo ancora visitato. Il che, francamente, iniziava a diventare imbarazzante.
Mi sono ritrovato come per incanto in una città bellissima, silenziosa e semideserta, sospesa in un’atmosfera senza tempo che mi ha sorpreso e che mi ha fatto venire alla memoria le piazze misteriose della pittura metafisica di De Chirico. C’era come un’aria di attesa nei vicoli sonnacchiosi che dal Castello Visconteo conducevano al centro storico, una sensazione di quiete e di immobilità che si presagiva sarebbe durata poco, giusto il tempo del pranzo di Pasqua. E allora ho capito che dovevo approfittare di quell’ora magica in cui la città era deserta per scattare delle fotografie che non fossero le solite foto ricordo di una gita domenicale fuori porta.
Confesso che sono rimasto senza parole quando mi sono trovato di fronte alla basilica di San Michele Maggiore, capolavoro dello stile romanico lombardo, che ricordavo vagamente dai tempi del liceo e dell’università. Ma i miei confusi ricordi di studente sono stati spazzati via e rimpiazzati dalla vivida sensazione visiva, quasi tattile, di quella facciata semplice e lineare, eppure così imponente e sontuosa.
Quella magnifica pietra arenaria color miele dai riflessi dorati, così tenera e fragile, mi ha incantato. E mi sono perso a fotografare i dettagli degli animali e delle altre creature fantastiche scolpite sulle cornici dei portali e sui capitelli: aquile, pesci, leoni, draghi, sfingi, misteriose sirene, cavalli alati, figure antropomorfe.
Alla fine sono stato attirato da dettagli, particolari, finestre e facciate, punti di vista insoliti e non immediatamente riconoscibili.
E così è stato anche per le famose torri di Pavia, per i cortili e i palazzi dell’Università, per Piazza della Vittoria e il Broletto, e per il famoso Ponte Coperto sul Ticino.
Allora ho riflettuto su cosa significasse per me fotografare. Ho ripensato alla mia concezione di fotografia, a quello che negli anni avevo elaborato, più o meno consciamente, sull’essenza della fotografia.
E ho capito che per me la fotografia è soprattutto un mezzo d’indagine per conoscere più a fondo la realtà. Ho sempre considerato la fotografia come una forma di conoscenza del mondo, più che un’arte. Più vicina alla filosofia e alla scienza, in questo senso. Mi ha sempre affascinato la possibilità che essa offre di catturare l’istante, di fermare il tempo.
«Fotografare mi offre una presa immediata sul mondo che posso registrare attraverso un dettaglio particolare, significativo. È un modo di capire e di vivere più intensamente»
(Henri Cartier-Bresson).