Avevo sentito parlare più volte del fascino particolare del borgo medievale di Castelsardo, situato al centro del Golfo dell’Asinara, e così, una mattina, abbiamo deciso di andare a visitarlo, allontanandoci per un giorno dalle spiagge affollate di Stintino.
Per arrivare al paese abbiamo percorso la strada costiera che da Porto Torres passa per Platamona, Marina di Sorso e Lu Bagnu, e che, approssimandosi a Castelsardo, si inerpica per le colline attraverso una serie di curve che offrono degli scorci con viste mozzafiato sulle scogliere e sul mare.
Castelsardo ci è apparsa all’improvviso in tutta la sua incantevole maestosità, dopo l’ennesima curva, incastonata sul promontorio a picco sul mare, con le sue case variopinte adagiate lungo i fianchi della collina, e la rocca del Castello che si erge superba sulla cima di uno sperone roccioso, a dominare il mare.
Parcheggiata l’auto sul lungomare che confina con il porticciolo, nei pressi della minuscola spiaggia di Castelsardo, ci siamo avviati verso la parte più alta e antica del paese. Giunti ai piedi del basamento roccioso su cui sorge il Castello, abbiamo preso il sentiero che conduce alla sommità del promontorio. Dopo una breve ma erta salita, costeggiando l’imponente parete di roccia che si innalzava alla nostra destra e ammirando il magnifico panorama delle scogliere a picco sul mare che si dispiegava alla nostra sinistra, siamo arrivati alla Concattedrale di Sant’Antonio Abate, posta in posizione dominante su uno dei bastioni che cingono Castelsardo, a strapiombo sul mare.
La chiesa, a cui si arriva dopo aver percorso un’ultima serie di ripidi scalini, si è offerta a noi con un colpo d’occhio spettacolare e inaspettato. Fino ad allora, mentre ci stavamo avvicinando ad essa lungo il sentiero in salita, l’avevamo vista costantemente dal basso verso l’alto, ammirandone il perfetto equilibrio armonico derivante dalla contrapposizione tra lo sviluppo orizzontale della facciata, semplice e lineare, che sembrava un tutt’uno con la parete di roccia, e il guizzo verticale del campanile, che si stagliava superbo contro l’azzurro del cielo. Poi, superata l’ultima rampa di scale che nell’ultimo tratto, con un effetto scenografico e teatrale, ne escludeva quasi interamente la vista, lo spettacolo è improvvisamente cambiato, i punti di vista si sono invertiti: eravamo noi, adesso, a trovarci in posizione sopraelevata e a dominare con lo sguardo la cattedrale che si protendeva verso il blu del mare.
Quando siamo scesi nella piazzetta antistante, piccola e incantevole, avevamo come la sensazione di trovarci sulla prua di una nave, magicamente sospesi tra cielo e mare, respirando la fresca brezza del maestrale che scompigliava i capelli e inebriava lo spirito. La facciata esterna della chiesa, essenziale, scabra, nuda, realizzata con una particolare varietà di pietra locale di colore marrone dalle meravigliose tonalità calde e dorate che contrastano felicemente con il blu del mare, mi ha subito rapito con la sua preziosa semplicità.
La Cattedrale, che fonde elementi del gotico catalano e del classicismo rinascimentale, fu costruita sui resti di una preesistente chiesa romanica, e divenne poi sede dell’antica Diocesi di Ampurias nel 1503. La torre del campanile che svetta al suo fianco, costruita dalla famiglia genovese dei Doria e originariamente pensata con funzioni di torre e di faro, è coronata da una piccola cupola ricoperta di maioliche policrome seicentesche che ne ingentiliscono l’aspetto marinaresco e militare.
L’interno della chiesa, che è di origine gotica ma ha subito diversi rifacimenti nel corso dei secoli, mi ha colpito per una peculiarità che mi lasciato senza respiro: dal buio del suo interno, rivolgendo le spalle all’abside e guardando in direzione del portale d’ingresso principale, si viene rapiti dalla visione inaspettata della luce intensa che penetra dalla porta spalancata e che incornicia scenograficamente uno spicchio di cielo azzurro e una porzione di mare blu, che sembrano poggiare sulla pietra del muro esterno dei bastioni e sull’ocra del selciato. Ammaliato da tale spettacolo, come una falena dalla luce della lampada, ho scattato diverse fotografie in successione, sperando di catturare le sensazioni e l’atmosfera di incanto e di magia di quell’attimo eterno dalla bellezza immensa.Una volta usciti dalla chiesa ci siamo poi incamminati per le strade strette e i vicoli del centro, la cui impronta urbana risente fortemente della dominazione genovese e aragonese. In alcuni punti sembrava di respirare l’atmosfera tipica dei carrugi di Genova.
Salendo verso il Castello, siamo rimasti incantati dal fascino allegro e leggero delle case silenziose e colorate, dalla compostezza delle vecchie signore sedute dietro una finestra o davanti all’uscio di casa, intente a ricamare scialli e centrini, dall’intima tranquillità delle piazzette che si presentavano inaspettate dopo una ripida salita o una rampa di scale, dalla cura e dal decoro dei piccoli cortili, dal vezzo antico di ornare balconi, davanzali e l’ingresso delle abitazioni con una variegata moltitudine di piante grasse riposte in piccoli vasi e contenitori colorati, di fogge e origini diverse, dalla sorpresa di imbattersi in panoramici scorci prospettici sul golfo dell’Asinara e inquadrature del mare racchiuse fra i vicoli e le case.Dalla cima del Castello, che fu edificato dalla famiglia genovese dei Doria nel XII secolo e sorge sulla sommità del promontorio a dominare il golfo, si gode di una vista a trecentosessanta gradi sulla costa settentrionale della Sardegna e l’isola dell’Asinara che lascia davvero senza fiato. Per la particolare posizione del promontorio e la conformazione geografica dell’insenatura sembra di essere circondati dal mare da ogni direzione.
All’interno del Castello abbiamo visitato anche il bellissimo Museo dell’Intreccio Mediterraneo, dedicato all’antica tradizione sarda di utilizzare le piante e gli arbusti del territorio (come la palma nana, la rafia, il giunco e l’asfodelo) per realizzare oggetti di uso quotidiano secondo antiche tecniche di intreccio manuale: cestini, nasse da pesca, imbarcazioni lacustri, setacci e altri utensili per fare il pane. Quando ho visto da vicino la caratteristica barca su fassoni, tipica degli stagni oristanesi di Cabras, realizzata con fasci di fieno palustre, corde di giunco e chiodi di canne, così straordinariamente simile alle imbarcazioni usate dalle popolazioni del lago Titicaca in Perù e alle barche di papiro degli antichi, ho avuto la netta sensazione di trovarmi di fronte a qualcosa di unico, qualcosa di così arcaico e profondamente diverso per cultura, storia e tradizioni, che mi è sembrato di toccare con mano il carattere autoctono di popolo e l’alterità dei Sardi rispetto al resto d’Italia e d’Europa.