«Me lo devo fare amico, il tempo.»
(Murakami Haruki)
Era da alcune settimane ormai che un’idea inusuale aveva iniziato a germogliare nei meandri della mia coscienza, o meglio in quelle zone profonde della psiche dove il pensiero aurorale convive con il mondo delle immagini dell’inconscio.
Lentamente quest’idea aveva cominciato ad affiorare dagli strati liminari della psiche, prendendo forma e facendo sentire sempre più forte il suo irresistibile richiamo al quale, come Ulisse al canto misterioso e seducente e delle sirene, sapevo che non avrei potuto resistere.
Mi affascinava l’idea di un progetto particolare, una sorta di reportage fotografico da svolgersi tra la notte e l’alba nelle piazze di alcune città italiane per esplorare le correlazioni tra ambiente e psiche in un’ora in cui la presenza umana è di solito assente ed è possibile avvicinarsi alla città in modo diverso per percepirne il respiro più intimo, instaurando con essa un dialogo interiore più autentico.
Mi seduceva l’idea di avvicinarmi alla città di notte come un amante, guardare ogni cosa come se fosse la prima volta, vivere un’esperienza insolita in un momento particolare di transizione in cui l’alba non ha ancora squarciato il velo della notte e tutto è ancora sospeso in una dimensione trepidante di attesa, un istante inafferrabile e sfuggente sospeso tra la notte e il giorno, tra i sogni e il risveglio, un istante incommensurabile che si dilata fino a diventare uno spazio interiore di meditazione.
Tutto era apparentemente nato dopo una breve gita fuori porta a Pavia, in una fredda e piovosa domenica di Pasqua, durante la quale avevo scattato delle fotografie in una città silenziosa e semideserta, quasi surreale.
Di quell’esperienza mi era rimasta dentro la sensazione indelebile di essere riuscito a vivere e a cogliere una dimensione nascosta, intima e riservata della città.
Da lì l’idea del progetto.
E così sabato scorso, sul far della sera, ho deciso all’improvviso che avrei iniziato proprio quella notte da Bergamo Alta, città che conosco bene e alla quale sono legato da un forte legame affettivo sin da quando oltre vent’anni fa arrivai in Lombardia, un legame che è poi cresciuto nel tempo. Una sorta di amore a prima vista, un’affinità elettiva, una corrispondenza di amorosi sensi che non sono mai riuscito a spiegarmi del tutto ma che deve affondare le sue radici in qualche associazione inconscia con l’architettura e l’impianto urbanistico di alcuni luoghi a me cari della Sicilia, Ragusa Ibla sopra tutti.
E così la notte di sabato scorso ho messo la sveglia alle tre del mattino (nell’unico giorno in cui avrei potuto dormire normalmente) e, dopo un breve viaggio in un’autostrada quasi deserta e surreale, alle quattro e mezza avevo già parcheggiato poco distante da Porta San Giacomo.
Mi sono inoltrato per le vie silenziose e deserte della città. Gli unici rumori che risuonavano erano i miei passi. Allora, come per rispetto e pudore, ho rallentato il passo per non turbare quella quiete solenne. In fondo ero sempre un estraneo che si avvicinava a un luogo che a quell’ora della notte mi appariva sacro e inviolato.
Mi sono diretto subito verso il centro storico. Durante il percorso mi sono fermato a scattare le prime foto presso l’antico lavatoio pubblico di via Lupo. Poi sono arrivato in Piazza Vecchia. Era ancora notte fonda. E lì ho scattato le foto ai luoghi principali: il Palazzo della Ragione, il Campanone, la Biblioteca Angelo Mai, Piazza del Duomo, la Basilica di santa Maria Maggiore e Cappella Colleoni.
Dopo un po’ ho perso la cognizione del tempo. Ero come sospeso in una dimensione atemporale e metafisica. Mentre lasciavo Piazza Vecchia per dirigermi più avanti, mi chiedevo quanto tempo fosse passato da quando ero arrivato a Bergamo. Volevo riuscire a scattare mentre era ancora notte, prima dell’aurora. Poi, sul far dell’alba sarei tornato indietro sui miei passi per fotografare gli stessi luoghi nella fatidica ora blu.
L’ora blu (in spagnolo “la hora azul“, in francese “l’heure bleue“) è quel particolare momento che precede il sorgere del sole, durante l’aurora, o che succede al tramonto, nel crepuscolo. Dura pochi minuti, al massimo mezz’ora, a seconda della stagione, ed è caratterizzata dalla tinta predominante di colore blu intenso e profondo e dalla luce delicata e soffusa che dona colori freddi e desaturati all’ambiente.
Il fascino dell’ora blu risiede proprio nell’essere un momento di transizione, di sospensione. Un attimo immenso, un istante incommensurabile in cui tutto deve ancora cominciare e per questo tutto può accadere, ogni cosa sembra possibile.
Nel film “Reinette e Mirabelle” di Eric Rohmer, la pittrice Reinette descrive l’ora blu con queste parole:
«Non è proprio un’ora, è solo un minuto. Un po’ prima dell’aurora, c’è un minuto di silenzio. Gli uccelli del giorno non sono ancora svegli e gli uccelli notturni sono già a dormire. Ed ecco… scende il silenzio. Se un giorno ci fosse la fine del mondo, sarebbe in quel preciso minuto e sai perché? Perché è l’unico momento in cui hai l’impressione che la natura cessi di respirare e questo… questo fa paura».
Mentre ritornavo verso Piazza Vecchia, da lontano ho intravisto due rade figure che si muovevano lentamente. Mi sono avvicinato a loro. Erano due vecchietti. Incontrandomi, mi hanno salutato con una gentilezza d’altri tempi, come si saluta un caro amico. E io ho ricambiato il saluto con cortesia. Come se fossimo stati gli unici abitanti della città.
Poi alla fine, l’ora blu è arrivata. E sono riuscito a fotografare quei luoghi sotto una luce magica.
Verso le sei e mezza, quando la città iniziava a svegliarsi, stanco ma soddisfatto, mi sono diretto verso l’auto e sono tornato a casa. Alle sette sono rientrato e mi sono rimesso al letto.
Nel dormiveglia ho rielaborato quell’esperienza, l’ho rivissuta e arricchita. Al risveglio, poco prima delle dieci, credevo solo di aver fatto un sogno. Poi ho visto la macchina fotografica e gli obiettivi ancora poggiati su tavolo e ho capito che era stato tutto vero.
Una delle cose che più mi ha colpito di quell’esperienza è stata il fatto che per tutto il giorno non sono stato in grado di collocarla in modo chiaro e netto nel tempo. Mi riferivo ad essa come “ieri” ma sapevo che era stata “oggi”, sapevo che erano passate poche ore. Era come se il tutto fosse avvenuto in una dimensione atemporale, come se quell’esperienza fosse sfuggita al tempo o fosse accaduta in un sogno. Un’esperienza bellissima e straordinaria.
E so che la rifarò.
Nota: le foto sono state pubblicate in ordine temporale, man mano che dalla notte si passava all’alba.