Entrai nella stanza. Lei era di spalle. Guardava fuori dalla finestra, lo sguardo rivolto verso un oltre lontano e misterioso. Poi si girò verso di me. I capelli corvini le incorniciavano il viso di una bellezza senza tempo. Lo sguardo fiero e altero non riusciva a celare la malinconia seducente che traspariva dagli occhi languidi e la voluttà indolente e stanca che una piega amara le disegnava sulle labbra irresistibilmente socchiuse.

– Sei arrivato, alla fine.
– Era solo questione di tempo. Nessun uomo può sottrarsi alla resa dei conti con se stesso.
– Perché sei venuto fin qui?
– Cerco delle risposte. Cerco un senso al mio errare inquieto.
– Ti sei forse stancato del tuo continuo peregrinare? Non hai sempre sostenuto che la ricerca perenne è l’essenza stessa della vita?
– Il tempo passa e cambia prospettiva alle cose. E noi cambiamo con esso. Sono stanco adesso. E cerco un approdo.
– Di cosa hai paura?
– Di sprofondare nel nulla, di essere risucchiato nel buio, inghiottito dall’oscurità. Temo l’oblio e la vanità del tutto. E temo la solitudine.
– ‘We live as we dream – alone.
– Forse ‘due solitudini che si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano’ vivono e sognano meno sole.
– Ah, l’amore! Questa vana e fallace illusione umana cantata dai poeti!
– Non è la vita stessa una grande e bizzarra illusione? Non è l’agire umano nient’altro che un tentativo di sfuggire al lento scivolare verso il nulla dal quale proveniamo?
– È per questo che vivi sempre al limite? Per sentirti vivo e illuderti di sottrarti a una sorte ineluttabile?
– Da tempo ormai, sogno il riposo. Sono stanco di combattere ed errare senza meta.
– Ti sei chiesto perché non hai mai trovato né quiete né risposte?
– Se lo sapessi non sarei venuto fin qui.
– Cosa ti strugge?
– Temo che tutto sia stato vano. Ho sempre lottato con tutte le mie forze, non mi sono mai arreso. Ho sempre cercato di varcare i limiti, di andare oltre l’orizzonte, ma adesso la ricerca che una volta mi dava piacere e gioia si è fatta meccanica e ripetitiva. La lotta che un tempo mi inebriava si è fatta noia e delusione. Arranco nel vuoto che mi circonda e mi opprime, e non trovo più un senso a tutto questo affannarsi. Mi strugge la nostalgia degli istanti felici che scorrono via trascinati dal tempo. E che tutto questo un giorno finirà.
– Era questo ciò che hai sempre cercato? Sfuggire alla morte e alla vertigine del nulla lanciandoti nel mezzo della battaglia? Illuderti di opporti al fluire del tempo che tutto consuma con la frenesia dell’azione? Finché non deporrai questa smania che ti divora, il tuo destino sarà sempre quello di errare senza quiete e senza pace.
– Non esiste il destino.
– Tu lo credi veramente? Credi di essere libero nelle tue scelte? Non è forse il tuo errare inquieto un modo di sfuggire al tuo destino? Una pietosa illusione?
– Forse. Ma è questa l’essenza più nobile ed eroica del vivere. Ribellarsi.
– Quando smetterai di nasconderti dietro questa corazza di ostinazione? Non puoi combattere per sempre. Accetta il flusso degli eventi e abbandonati alla corrente.
– Ci ho provato. Ma la realtà è spesso sorda e opaca. E gli eventi ci colgono sempre di sorpresa, quando abbiamo abbassato le nostre difese e ci siamo illusi di avere trovato un’oasi di pace e felicità, portandoci via quello che credevamo di avere conquistato.
– Tu non stai cercando delle risposte. Tu cerchi un approdo, un porto, un rifugio dove finalmente riposarti.
– La realtà non segue quasi mai i nostri sogni e i nostri desideri.
– Raccontami del tuo viaggio.
– Dopo lungo errare nell’oceano, quando credevo di aver smarrito per sempre la via del ritorno, approdai su un’isola. Lì conobbi la dolcezza dell’abbraccio, la passione che divampa e quella che arde quieta come la brace. Là vissi l’unione più intima, mi abbandonai senza remore e misi a nudo la mia anima. Poi mi ritrovai di nuovo in mare aperto, in mezzo a venti avversi e tempeste. Navigai a vista in cerca di un nuovo orizzonte, di un nuovo approdo. Non riuscivo più ad orientarmi. E per la prima volta ebbi paura. Sentii la stanchezza, la fatica e la solitudine. Ebbi paura che la forza e la volontà mi abbandonassero. Conobbi la tentazione e la molle voluttà di lasciarmi andare, di abbandonarmi alla deriva. Poi, nel momento di maggiore smarrimento, quando la mente vacillava e stentavo a ritrovare la rotta, il corpo mi salvò. Mi concentrai su di esso, imparai a distillare il dolore, a purificarlo per lenire le ferite e curarmi. E il corpo curò poi lo spirito. E tornai a fare affidamento su di me, ripresi in mano il timone per ritrovare la rotta. A volte mi sono avvicinato all’isola. Più volte mi è sembrato di avvistarla, di rivederla. Poi, come un miraggio, si è allontanata di nuovo. E da allora vago nuovamente senza quiete in mare aperto. E non so più cosa sto cercando.
– Che cosa avresti voluto?
– Avrei voluto che quei momenti fossero durati per sempre.
– Sempre è una parola che non è concessa agli uomini.
– L’eternità dipende da noi. L’uomo ha il potere di rendere eterno ciò che scorre e fermare l’attimo.
– Cosa desideri adesso più di ogni altra cosa?
– Sogno di ritrovare la mia isola. E di perdermi nell’abbraccio.
– Allora asseconda la corrente. Non opporti. Abbandonati a essa e seguila. Non puoi combattere per sempre. Ma ricorda. Tu non sei nato per rimanere a lungo su un’isola. Il richiamo dell’ignoto e del viaggio tornerà prima o poi a farsi sentire, irresistibile.

Pronunciate queste parole, rimanemmo entrambi in silenzio e ci guardammo a lungo negli occhi, uno di fronte all’altra, immobili, come uniti da un filo invisibile e arcano.

Poi, dopo attimi che sembrarono eterni, lei disse:
– Devo andare adesso. Tu rimani ancora qui, a riposarti. Sei stanco e provato. Le mie ancelle ti accompagneranno fuori più tardi, quando sarai pronto.

Aprì la mano e poggiò un fiore di una bellezza insolita e sconosciuta, di un profumo mai sentito, sul tavolo di legno che si trovava al centro della stanza, e mi guardò per un’ultima volta. Accennò un sorriso di una dolcezza che non dimenticherò mai e poi si ritirò nelle sue camere, sparendo nell’oscurità. L’ultima cosa che ricordo fu il balenare delle sue labbra rosse socchiuse.

(continua)

Le altre parti del racconto le trovi qui:

Nàiadi (1 parte) – Balconi barocchi

Nàiadi (2 parte) – Bisce d’acqua

Gustav Klimt, Judith I, 1901