Poco dopo l’arrivo in Sardegna, mentre procedevamo con l’auto lungo la strada provinciale che dall’aeroporto di Alghero conduce a Stintino, e ci addentravamo nella campagna arida e illuminata dalla calda luce del pomeriggio agostano, avvertivo un’insolita sensazione di déjà vu. Il paesaggio circostante, nonostante mi fosse nuovo e sconosciuto, suscitava in me una vaga sensazione di familiarità di cui non riuscivo a comprendere pienamente le ragioni. Ci dovevano essere delle caratteristiche nell’ambiente, dei dettagli impercettibili che colpivano in modo subliminale la mia immaginazione e mi richiamavano alla memoria elementi noti e familiari.
Soltanto dopo una ventina di minuti di viaggio ho preso coscienza del fatto che il colore e la conformazione del terreno, il tipo di suolo che si intravedeva tra le stoppie riarse, le colline basse e quasi di prive di vegetazione, le solitarie case di campagna attorniate da sporadici alberi, l’inclinazione della luce solare e perfino l’orientamento delle ombre nel paesaggio, mi ricordavano i luoghi familiari della campagna siciliana tra le province di Ragusa e Catania.
Questa sensazione di straniamento, di disorientamento, di spaesamento al contrario – nel senso che un ambiente nuovo e sconosciuto mi provocava sensazioni di familiarità e di già visto – sarà un elemento ricorrente che mi accompagnerà durante tutto il periodo del nostro soggiorno in Sardegna.
Prima di partire mi ero ovviamente documentato, tramite internet e riviste di viaggi, sulle principali attrazioni paesaggistiche della zona, creandomi una mappa mentale dei luoghi che avrei visitato e costruendomi una sorta di immaginario virtuale basato sulle foto che illustravano le bellezze di quell’angolo di Sardegna.
Ma quando mi sono trovato di persona nei luoghi che avevo visto in fotografia, ne ho ricevuto un’impressione ben diversa da quella su cui avevo fantasticato. C’era come una sorta di impercettibile dissonanza, uno scollamento, un disallineamento impalpabile fatto di leggeri slittamenti fra la realtà immaginata sulla base delle foto e la realtà esperita di persona. Così è stato, in particolare, per la celebre torre della Pelosa, fotografatissima e onnipresente su qualunque guida turistica della Sardegna, al punto che il suo iconico profilo è diventato l’emblema stesso di Stintino e del suo paesaggio.
La torre della Pelosa, che prende il nome dalla spiaggia antistante, chiamata in origine “sa palosa” per la presenza di un particolare tipo di alga (paglia marina) che si deposita sulla riva, è situata sull’isolotto posto tra l’Isola Piana e il promontorio di capo Falcone, all’ingresso dello stretto dell’Asinara. Fu edificata nella seconda metà del Cinquecento a fini difensivi per l’avvistamento delle imbarcazioni provenienti da ovest che, dal cosiddetto “mare di fuori”, perennemente battuto dal forte vento di maestrale e caratterizzato da un cupo blu cobalto e da scogliere a strapiombo, cercavano di dirigersi a est verso le coste basse del “mare di dentro”, riparato dai venti e dalle acque limpide e chiare.
La prima volta che ho visto la torre della Pelosa erano quasi le otto di sera ed eravamo da poco arrivati a Stintino: il cielo era velato da nuvole sfilacciate, il sole non era ancora tramontato ma era già calato dietro il promontorio roccioso di Capo Falcone, diffondendo nell’aria una strana luce lattiginosa e opalescente che si riverberava nell’ambiente circostante, generando un’atmosfera di sospensione e di attesa, come se da un momento all’altro una pioggia purificatrice avesse dovuto lavar via quella foschia, ripulendo l’aria dall’umidità e da quell’insolita tonalità alabastrina. Il mare, sebbene fosse calmo, era plumbeo, livido. Sulla spiaggia, poche persone, quasi indistinguibili, piccole macchie scure di colore, come figure astratte in un quadro di Turner.
Non c’era nulla in quel paesaggio che ricordasse la tipica estate mediterranea, i suoi colori caldi e accesi. Dopo una decina di minuti di spaesamento – e anche di delusione, lo ammetto – mi sono reso conto che avevo già visto una scena simile, avevo già vissuto un’esperienza del genere in un posto lontanissimo e molto diverso dalla Sardegna: in Scozia, nelle Highlands, quando mi ero fermato a contemplare la calma irreale di un loch solitario, attorniato da verdi e cupe colline, attardandomi a rimirare il fascino misterioso di una torre diroccata che, dalla cima rocciosa di un isolotto, si rifletteva sulle acque fredde e scure del lago.
Nei giorni successivi, nell’intensa luce del mezzogiorno, ho ritrovato più volte la torre della Pelosa solare e apollinea che avevo imparato a conoscere dalle foto dei siti di viaggi: quella che si staglia, altera e solitaria, dalla cima del suo isolotto, sullo sfondo dell’Isola Piana e del maestoso profilo dell’Asinara. Ho nuotato fra le acque limpide e cristalline del suo mare, raggiungendola più volte.
Mi sono immerso nei suoi fondali ancora straordinariamente integri e brulicanti di vita, fra le secche che risalgono dal fondo e le praterie ondeggianti di posidonie. Ho osservato da vicino, a meno di tre metri di profondità, un magnifico esemplare di Pinna nobilis, il più grande bivalve presente nel Mar Mediterraneo – considerato in via di estinzione e specie protetta – dai cui filamenti, secreti dal mollusco per ancorarsi al suolo, si produceva anticamente il “bisso marino”, una sorta di seta naturale marina che veniva utilizzata per la tessitura di preziosi e costosissimi indumenti. Mi sono inebriato dei colori di un mare di bellezza ineguagliabile, che attraversa tutte le tonalità che vanno dal blu al verde, passando dal turchese chiaro al lapislazzuli più intenso.
Ma dentro di me rimarrà sempre forte e viva l’impressione fantasmatica di quel primo incontro, sotto un cielo cupo e un mare livido e scuro, che ha associato indelebilmente la Torre della Pelosa all’atmosfera gotica di un castello scozzese che sorge dalle fredde acque di un loch delle Highlands.