28 giugno 2011 – martedì – Old Man of Storr, Cuillins e Talisker
Quando mi sveglio il cielo è coperto da grandi nuvole scure. Ha piovuto abbondantemente nelle prime ore del mattino. Oggi ho in programma di salire sul massiccio dello Storr fino ad arrivare a quello straordinario monolito di roccia alto 50 metri, noto come Old Man of Storr, che si erge come un gigantesco dito nero puntato verso il cielo.
La giornata si preannuncia molto variabile, con probabili rovesci e schiarite. Decido di vestirmi ed equipaggiarmi per ogni eventualità atmosferica. Parto alle otto e mezza del mattino.
Lo Storr dista solo dieci miglia da Portree, ma il paesaggio e lo scenario in cui è immerso è così selvaggio e fuori dal tempo da farlo sembrare un viaggio molto più lungo. Si passa dal mare alla montagna in pochi minuti.
Attraverso con l’auto il centro di Portree. La luce del mattino illumina il porto e le facciate colorate delle case, rese brillanti e traslucide dalla pioggia caduta nelle prime ore del mattino. Una volta fuori dal paese, proseguo per la A855 che in alcuni tratti diventa una strada a una sola corsia.
È incredibile come poche centinaia di metri dopo le ultime case di Portree il paesaggio cambi completamente. Lasciate le ultime case colorate e i giardini ricchi di fiori mi addentro in una terra aspra e brulla, i cui colori dominanti sono l’ocra e il verde. Grandi nuvole nere si addensano nel cielo e inizia nuovamente a piovere.
Sembra che si prospetti un’altra giornata di pioggia e vento come l’altro ieri e inizio a temere di dover rinunciare all’escursione in montagna. Invece il tempo cambia nuovamente. Le nuvole vengono rapidamente spazzate via dal vento che soffia dal mare e i raggi del sole filtrano tra le nuvole, creando degli squarci di luce bellissimi. Di fronte a me si erge la mole nera e imponente dello Storr col suo pinnacolo inconfondibile; a destra il lago “Loch Fada” col suo caratteristico isolotto, a sinistra le colline verdi.
Finalmente, dopo altre cinque miglia, giungo nell’area da cui parte il sentiero che conduce in cima allo Storr e lascio l’auto nel parcheggio, piccolo e quasi deserto a quell’ora. Scruto il cielo scuro e minaccioso che non promette nulla di buono. La cima dello Storr è coperta dalle nuvole.
Mi bardo adeguatamente contro il freddo e la pioggia. Ci sono 12 gradi di temperatura e siamo quasi al livello del mare. Bisogna salire a circa 720 metri di altezza. Inizio la salita armato di fotocamera e obiettivi. Sono quasi le dieci del mattino.
La prima parte del sentiero si snoda all’interno di un fitto bosco di abeti, alti e imponenti all’interno del quale la luce del sole viene filtrata e schermata dalla vegetazione. Si ode lontana la pioggia che cade sulle fronde degli alberi. L’odore di terra bagnata e di resina è fortissimo. Mi riempio i polmoni di quell’inebriante profumo.
Dopo un quarto d’ora di salita nella luce tenue del sottobosco, su un sentiero reso scivoloso dalla pioggia caduta nella notte e dal fango, arrivo finalmente a una prima radura. Abituato ormai alla penombra del bosco rimango quasi abbagliato dalla luce del sole che fa risplendere di un verde brillante gli abeti. Qua e là nel prato ci sono fiori di mille colori, felci verdi e bianchissimi fiori di cotone. Il silenzio è rotto solo dal mio respiro, dalla pioggia fine che continua a cadere impercettibile nonostante il sole stia spazzando via le nubi, e dallo scrosciare dell’acqua di un ruscello che costeggia il percorso. Il sentiero si addentra di nuovo all’interno del bosco.
Dopo altri quindici minuti di ripida salita, intravedo finalmente, come in un tunnel, la luce dell’uscita. Un lampo di luce e di verde mi inonda. Esco fuori e all’improvviso la visione del massiccio dello Storr mi accoglie in tutta la sua maestosa potenza e grandiosità. Mi trovo in un’ampia radura. Il bosco termina lì. Adesso inizia la montagna, la salita vera.
Lo spettacolo è grandioso. Si stenta ad abbracciarlo tutto con un unico sguardo. Alcune persone arrivate prima di me scattano delle foto. Poi scorgo il sentiero che conduce alla cima. Erto, lungo, sinuoso, lontano, quasi irreale. Dei piccoli puntini colorati si muovono lentamente su di esso, simili a formiche. Sono escursionisti che salgono in cima. Per la prima volta mi chiedo se ce la farò. Il sentiero fra le rocce è ripidissimo, stretto, senza protezione e sale su per la montagna fino alla cima. Mi fermo alcuni minuti a riprendere fiato e poi riparto. Cerco di fare attenzione a dove metto i piedi, la pioggia caduta nella notte ha reso il terreno viscido e scivoloso.
Dopo cinque minuti di salita mi giro indietro verso la valle ad osservare il paesaggio. Sotto di me le rocce nude, poi i prati verdi, quindi il bosco di abeti e infine, lontano, il mare che si perde all’orizzonte fra le altre isole e le cime nere dei Black Cuillin a fare da cornice.
Riprendo la salita, fermandomi ogni tanto a scattare delle foto. Dopo circa mezz’ora giungo finalmente in cima. C’è un silenzio impressionante e un vento molto forte. Ci sono solo una decina di persone in un’area molto vasta, distanti un centinaio di metri l’una dall’altra e in religioso silenzio. La montagna sembra incutere a tutti un rispetto e un timore quasi reverenziale. Falchi, corvi, gabbiani e altri uccelli volteggiano nell’azzurro straordinariamente intenso del cielo.
Giungo ai piedi dell’Old Man of Storr. A separarmi dalla sua cima c’è ora una salita molto scoscesa alta una trentina di metri, quasi verticale, costituita da terriccio, massi e rocce franate.
Un cartello avvisa del pericolo di frane e sconsiglia di avventurarsi oltre. In un primo momento credo che non sia possibile salire in cima. Poi rivolgo l’occhio in alto e vedo due persone che, tenendosi aggrappate a terra con le mani e i piedi e lasciandosi scivolare a poco a poco, scendono lentamente da quella frana. Un passo falso e rotolare da quell’altezza insieme a massi e rocce potrebbe essere fatale. Li guardo scendere finché arrivano a terra. Sono indeciso sul da farsi. Accanto a me c’è una giovane coppia di italiani, armati di bastoni da montagna ed evidentemente esperti di escursioni, con cui scambio qualche parola sul percorso migliore da fare. A un certo punto decidono di tentare la scalata.Mi decido anch’io. Salire non è semplice, i piedi affondano nel terreno franoso e non c’è alcun punto fermo su cui far leva. I sassi e il terriccio rotolano sotto di me mentre mi arrampico carponi cercando di ancorarmi ai massi più grossi. Mi giro una sola volta a guardare il panorama dietro di me: la visione è da capogiro. Non soffro di vertigini ma confesso che per alcuni istanti sento un brivido corrermi lungo la schiena.
Decido di guardare solo avanti e di continuare a salire. Il richiamo della montagna è troppo forte. Man mano che mi avvicino alla cima, affondando le mani e i piedi nel terriccio, mi chiedo come farò poi a scendere.
Finalmente arrivo in cima. La salita è durata poco in realtà, credo cinque minuti, ma mi è sembrata un’eternità. Assieme a me c’è anche la coppia di italiani, arrivati poco prima. Sono ai piedi dell’Old Man of Storr, lo posso toccare. Poco distante l’altra straordinaria formazione rocciosa, Needle Rock, che trae il suo nome dalla punta incredibilmente aguzza. Visto da vicino l’Old Man dimostra tutta la sua mole e i suoi cinquanta metri di altezza.
Il cielo è coperto dalle nuvole, sono nel lato in ombra e fa freddo, nonostante sia abbondantemente coperto. Soffia un forte vento in cima. Affacciarsi dall’altro lato è quasi impossibile, si rischia di perdere la presa per il vento e cadere giù. Mi siedo su una roccia, un po’ al riparo dal vento, a guardare il panorama da quell’altezza.
Mi afferra una sensazione di stordimento per la grandiosità del paesaggio. Guardo la coppia di italiani in controluce che scatta delle foto per festeggiare l’impresa. Dopo una ventina di minuti che sono in cima decido di scendere. Osservo dall’alto la scarpata scoscesa, fatta di rocce franate, sassi e terriccio instabile, e mi chiedo se sono stato veramente un incosciente a salire fin là sopra e se ce la farò a scendere. A parte la coppia che è rimasta ancora su non c’è nessun altro nelle immediate vicinanze. Mi accovaccio a terra, quasi seduto, e inizio a scendere in questo modo, le mani dietro a far da freno e i piedi davanti a guadagnare lentamente terreno. La terra frana sotto di me, man mano che scivolo lentamente in basso. Ogni tanto qualche sasso più grosso degli altri si stacca e lo vedo rotolare giù, prendendo sempre più velocità lungo la corsa, fino ad andare a sbattere e spaccarsi giù contro le rocce.
Finalmente arrivo al pianoro da cui sono partito. Mi pulisco le mani sporche di terra con l’acqua della borraccia. Ho i muscoli indolenziti, le gambe che mi tremano per lo sforzo e la fatica, ma sono soddisfatto. Sono in marcia da quasi due ore.
Decido di iniziare la discesa verso l’auto. Ho ancora un’ora abbondante di marcia davanti a me. Ho appena iniziato a scendere, avrò fatto sì e no una cinquantina di metri, quando scorgo un sentiero secondario strettissimo, a picco sul precipizio, che conduce dall’altro lato della montagna.
Da lì dovrebbe scorgersi l’Old Man of Storr da una posizione panoramica. Sono indeciso sul da farsi. Sono stanco e ho ancora tanta strada da fare. Ci penso un attimo e poi decido. Sono qui, adesso, non esiste una seconda volta. Mi immetto sul sentiero secondario e ricomincio nuovamente la salita, ancora più ripida della precedente.
Dopo una decina di minuti raggiungo il posto panoramico. Scoprirò poi che si chiama “Coire Faoin”, the “Sanctuary” in inglese, e mai nome fu più azzeccato. La vista è splendida, non c’è nessuno, vedo i turisti giù a valle che sembrano formiche. Mi siedo su una roccia e mi metto a contemplare quelle vette nere e aguzze che incombono su di me come giganteschi totem e che a loro volta sembrano guardarmi. Hanno nomi antichi, aspri e duri, “Baca Ruadh” e “Beinn Edra”, che dimostrano la penetrazione dell’antica lingua dei vichinghi nel gaelico.
C’è un silenzio irreale rotto solo dal vento e dal verso di qualche uccello. Fisso quelle vette in religioso silenzio. E le vette fissano me. Mi scorre dentro un’intera vita. Mi sembra di intrecciare un dialogo silenzioso con quei monoliti di roccia che incutono timore, come se mi stessero scrutando dentro e interrogando, come se stessero togliendo tutto il superfluo fino ad arrivare alla scabra nudità della roccia dentro di me, come se stessi diventando della loro stessa materia ed essenza. Dopo una decina di minuti che mi sembrano un’eternità, mi sento come rinato.
Stare al cospetto di quelle vette minacciose mi ha scosso ed emozionato fortemente. Mi sento ammaliato da quel posto, come se tutto il resto non contasse più in quella strana dimensione atemporale, come se il tempo e lo spazio avessero cessato di essere. Esiste solo quel luogo in quell’attimo eterno, e io sono lì, a farne parte, non più individuo ma parte collettiva del tutto. Mi vengono in mente le sequenze finali di quel bellissimo film di Peter Weir, “Picnick at Hanging Rock”.
Dopo una decina di minuti le voci di alcuni turisti che stanno risalendo la montagna mi svegliano da quella magia. Mi congedo da quelle cime sacre e ricomincio a scendere. Una volta arrivato alla radura, e prima di addentrarmi nel sentiero del bosco che ne preclude la vista, mi giro indietro a rimirare ancora una volta per alcuni minuti quelle vette magiche e misteriose. Non vorrei staccarmi da esse. Mi duole in modo inspiegabile abbandonarle e non rivederle. Rivolgo loro un ultimo sguardo lungo e intenso per serbarne quanto più possibile l’immagine e il ricordo dentro di me, come si fa con la donna amata prima dell’addio. Quando riprendo il cammino mi accorgo che una lacrima mi riga la guancia. Mi inoltro nel buio sentiero del bosco. Quando arrivo al parcheggio è l’una e mezza. Quasi tre ore e mezza di marcia. Mi sembra sia passata un’eternità.
Mangio una barretta energetica di cereali e frutta secca e parto per Sligachan, nel cuore dell’isola, per poi dirigermi verso il distretto di Talisker, nella penisola del Minginish sulla costa occidentale, dove sorge l’omonima distilleria di whisky, uno degli “Island Single Malts” più buoni al mondo.
Prima di arrivare a Portree mi fermo a scattare delle foto della strada che si snoda scenografica, deserta e nera, lungo il verde e l’ocra della campagna, sotto un cielo azzurro e nuvole bianchissime.
Ripasso da Portree. È come trovarsi in un altro mondo. Le case colorate, i giardini, la gente che passeggia per le vie. Mi sembra impossibile che pochi minuti fa mi trovassi al cospetto di quelle vette eterne, a sperimentare quello che gli antichi chiamavano l’aspetto “numinoso” della natura.
Arrivo a Sligachan, nella zona centrale e più montuosa dell’isola, e mi ritrovo ai piedi dell’imponente massiccio dei monti Cuillin. Le Red Hills, perfettamente coniche e simili a vulcani, e le minacciose Black Cuillin dalle cime seghettate e perennemente ricoperte di nubi.
Le Black Cuillin sono forse le montagne più spettacolari e pericolose della Gran Bretagna. Le loro vette, pur non superando i mille metri di altezza, possono essere affrontate solo da scalatori esperti. Nei loro nomi gaelici, aspri e quasi impronunciabili, sembra risuonare la loro irriducibile alterità e il loro essere interdette ai comuni mortali: Sgurr Alasdair, la più alta che raggiunge i 991 metri, e poi Sgurr nan Gillean, Am Bastier, Sgurr Bhastier, Brauch na Frithe, e le altre.
Lo spettacolo lascia senza fiato. Ad un certo punto, con la coda dell’occhio, scorgo un piccolo lago con al centro una minuscola isola piena di alberi. Si tratta di Loch nan Eilean. Parcheggio in uno piccolo spiazzo ai lati della strada e mi inoltro per la brughiera e le distese di torba, diretto al lago. Il terreno è incredibilmente soffice e acquitrinoso. I piedi sprofondano nella torba bagnata, ricoperta di minuscoli fiori rossi e gialli. Lo stagno sembra uscito da un’illustrazione di storie di fate, elfi e gnomi. Mentre scatto le foto sento i piedi sprofondare in quella strana vegetazione spugnosa che ricopre il terreno acquitrinoso. Ripenso alle storie misteriose di fate e altre creature dei boschi che imprigionano, ammaliandoli, gli incauti viaggiatori. Dopo aver scattato un po’ di foto riparto.
Arrivo finalmente a Talisker, che si trova di fronte a una baia incantevole le cui acque placide riflettono le nuvole del cielo, fra cangianti giochi di luce. C’è un piacevole odore di malto nell’aria. Entro nella distilleria, ma non faccio il percorso guidato all’interno perché prenderebbe troppo tempo. Nell’area per i visitatori adibita a museo compro un bicchiere da degustazione per il whisky.
Poi riparto prendendo un sentiero secondario e mi inoltro per circa una ventina di minuti in una campagna molto bella, caratterizzata da fattorie e ville lussuose. Alla fine, quando giungo a Portree, mi sembra di aver viaggiato nel tempo e nello spazio.
Arrivato a casa faccio una doccia rilassante e poi vado a cena all’Isles Inn Pub a Portree. Come antipasto ordino una porzione di haggis, il piatto tradizionale scozzese, servito con “neeps and tatties” (sformato di rape e patate).
L’haggis è un “insaccato di interiora di pecora (cuore, polmone, fegato), macinate insieme a cipolla, grasso di rognone, farina d’avena, sale e spezie, mescolati con brodo e bolliti tradizionalmente nello stomaco dell’animale per circa tre ore”. Poi ordino un piatto di salmone e gamberi, accompagnati da ottima birra e dall’immancabile bicchiere di whisky Talisker.
All’uscita dal pub mi soffermo ad ascoltare una tipica banda di cornamuse che suona per strada. La bellezza di quella musica mi colpisce e mi emoziona di nuovo.
Domani devo lasciare il B&B e fare le valigie per trasferirmi nel nuovo alloggio a Broadford, nella zona sud dell’isola, di fronte al mare.
Esco fuori verso le nove e mezza di sera a fumare un sigaro toscano all’aperto, fra i campi, di fronte al sole che tramonta. Fa freddo, c’è una brezza molto fresca che spira da occidente, ma è bellissimo. È il mio personale saluto a quella contrada che mi ha ospitato per quattro giorni. Rientro. Scatto delle foto dalla finestra della mia camera. Domani mi aspetta un’altra giornata intensa. Quando vado a letto è ormai mezzanotte e mezza. Sarebbe l’una e mezza in Italia. C’è ancora un po’ di chiarore nel cielo.